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Giuseppe Ferraro e la registrazione etnografica della vita carpenetese nella seconda metà del XIX secolo


Descrizione

di Franco Castelli

Poichè la carità del natio loco
Mi strinse, raunai le fronde sparse.

Con questa citazione dantesca, che apre la prefazione al volume dei Canti popolari del Basso Monferrato del 1888, il demologo di Carpeneto Giuseppe Ferraro sembra voler indicare nell'amore per il proprio pae­se la molla che lo spinse per tutta la vita "ad intra­prendere un lavoro così lungo, poco stimato dai più, fruttante niun guadagno, e molti fastidi". Che non fosse retorica, lo stanno a dimostrare i risul­tati di più di trent'anni di un'attività di ricerca inde­fessa, minuziosa, a vasto raggio, sui più vari aspetti della tradizione popolare e dell'espressività tradizio­nale, che inizia "nella stretta cerchia della (sua) pa­tria, Carpeneto, nell'Alto Monferrato, circondario d'Acqui, Provincia di Alessandria" e che si allarga negli anni successivi, seguendo le vicende della sua carriera di uomo di scuola, in altre regioni d'Italia (Sicilia, Puglia, Emilia Romagna, Sardegna), mante­nendo però sempre il suo ideale baricentro sul predi­letto natio Monferrato.
Nella storia degli studi demologici italiani, se si ec­cettua il caso eccezionale del Pitrè per la Sicilia, for­se nessuno, più del Ferraro, ha dedicato tanto tempo e spazio a indagare la realtà tradizionale di una "pic­cola patria". Nonostante ciò, la difficoltà che pone il "caso Ferraro" oggi a chi voglia criticamente analiz­zare i risultati di questo imponente lavoro, si possono condensare in una sola parola: dispersione. E questa concerne le stesse notizie documentarie necessarie per ricostruire una biografia e una bibliografia esaustive dell'autore. Il fatto che i suoi scritti e ma­noscritti non siano stati depositati e conservati in nes­sun archivio, né familiare né pubblico; il fatto che l'attività di pubblicista del Ferraro si sia dispiegata in più campi disciplinari (dallo storico al linguistico al filologico al folklorico) e in regioni e località di­verse, con una collaborazione a riviste e giornali non solo nazionali ma locali, rende estremamente arduo ricostruire in modo completo la mappa dei suoi scrit­ti, nei vari campi della sua produzione. A ciò si deve aggiungere un altro tipo di dispersione, intimamente connesso alla formazione culturale del­l'autore, cioè, in ultima analisi, agli orientamenti sto­rico-filologici prevalenti negli studi demologici ita­liani del secondo Ottocento. Il figlio del "ferraio" (maniscalco-veterinario) di Carpeneto, infatti, fre­quenta i corsi universitari alla Regia Scuola Normale Superiore di Pisa, dove ha come maestri Alessandro D'Ancona e Domenico Comparetti, il cui insegna­mento fu determinante per avviare il giovane Ferraro alle ricerche folkloriche. Dal D'Ancona (docente di letteratura italiana) gli venne l'attenzione storico­filologica per i "testi" popolari antichi, il gusto per l'erudizione e l'interesse per la ricerca sulle "origi­ni" dei fatti linguistici e culturali; dal Comparetti (do­cente di letteratura greca) l'attenzione per la narrati­va tradizionale e le suggestioni della "mitologia com­parata" provenienti dalle teorie di Max Muller.

Ma dagli indirizzi storico-filologici discende pure, nel Ferraro (limite grosso, ma comune ai folkloristi del suo tempo) la frantumazione della realtà comu­nicativa del popolo in segmenti, sezioni, categorie precostituite ed esterne, "generi" insomma, di tipo accademico: usi e costumi, canti, proverbi, novelle, superstizioni, giochi ecc. Diventa così arduo ricomporre in una visione unitaria il contesto reale di vita di una comunità come Carpeneto nella secon­ da metà dell'Ottocento, dopo che ha subito un tale duplice trattamento di disaggregazione: in primis per la aprioristica frammentazione degli aspetti della vita e della espressività popolari, in secondo luogo per la dispersione delle tante, innumerevoli informazioni in una miriade di opere di vario spessore (dal libro al saggio all'articolo all'asterisco) non sempre di faci­le reperimento.

Detto questo, se non sarà possibile in questa sede realizzare compiutamente tale improba impresa ricostruttiva, cercheremo per lo meno di additare le fonti principali di registrazione etnografica della vita carpenetese del secolo scorso. Certamente, la parte più cospicua e forse più attra­ ente del materiale raccolto "sul campo" dal Ferraro è costituito dai canti. La prima raccolta, Canti popo­lari monferrini, esce nel 1870 dal Loescher di Tori­no e comprende ben 115 canti (in gran parte ballate) e 112 strambotti, riportati con fedeltà: "era mio do­ vere riferirli quali li ho uditi", precisa l'autore nella prefazione. Un secondo gruppo di testi raccolti o

"spigolati" come scrive il Ferraro - "sullo stesso cam­po, nello stesso paese", esce nel 1874-75 su "La Ri­vista Europea", di Firenze, diretta da Angelo De Gubernatis: sono 51 canti (50 monferrini e 1 ninna nanna calabrese) e 30 strambotti. Nel 1888, stesso anno dell'uscita dei Canti popolari del Piemonte di Costantino Nigra, con dedica "Al­l' illustre Conte, ambasciatore d'Italia presso l'Im­pero Austro-ungarico", escono a Palermo, nella col­lana delle "Curiosità popolari tradizionali" del Pitrè, i Canti popolari del Basso Monferrato, comprendenti 161 testi (56 canti, 8 giochi, 18 indovinelli, 79 strambotti) provenienti dalla parte settentrionale del Monferrato, cioè dal Casalese . Se vogliamo dunque limitarci alla realtà di Carpeneto, abbiamo, solo per ciò che concerne il canzoniere tra­dizionale, un corpus di 165 canti e 142 strambotti, per un totale di 307 testi: non poca cosa, per un pae­se di poche centinaia di abitanti, se si tiene presente che la stessa monumentale raccolta del Nigra regi­stra, per l'intero territorio regionale, non più di 170 testi di canzoni, 183 strambotti e 10 stornelli. Quan­to nello studio dei canti nativi fossero coinvolti non solo la mente ma anche il cuore dello studioso, lo esprime bene, nella prefazione ai Canti popolari di Ferrara Cento e Pontelagoscuro, uno squarcio autobiograficamente molto significativo, dai toni quasi lirici:

"I canti monferrini mi ricordano i bei giorni della fanciullezza, il paesello natio, le primavere passate fra i colli fioriti, le poetiche notti estive, le feste del­la vendemmia, e tutto il cumulo degli affetti, che mal si possono esprimere allorché si parla della patria". Ma l'attività di ricercatore o "spigolatore" (come con somma modestia si definisce) del Ferraro non s'arre­sta qui. Un altro grosso contributo al recupero di ma­teriale tradizionale relativo al suo paese è la straordi­naria serie di Racconti popolari monferrini: 127 testi manoscritti (conservati presso l'archivio del Museo arti e tradizioni popolari di Roma) di cui appena 21 editi dal Comparetti nel 1875 e altri 47 nell'antolo­gia di fiabe piemontesi scelte da Gian Luigi Beccaria e tradotte da Giovanni Arpino del 1982. Questa è l'opera prima del Ferraro, compiuta su sol­lecitazione del maestro Domenico Comparetti nel 1869. Sono le fabulazioni o quintulle dei vecchi monferrini, che si contavano a veglia, le notti d'in­verno, e che affondano in un retroterra culturale e mentale arcaico, popolato di apparizioni inquietanti, di ombre e di morbose allucinazioni. Oltre alla fiabe di magia, infatti, con riferimenti al mondo sotterra­neo, alle metamorfosi, ai "compiti difficili", a piante e animali in funzione di aiutanti magici, ai temi eter­ni della ricerca dello sposo e della sposa, dell'infante abbandonato, degli enigmi, sono numerosi i racconti sul diavolo e sulle streghe (ir strife), con accenni a credenze come il mà d'ogg (malocchio) u u spirit fulet, con descrizioni icastiche di sabba danzati nelle radure dei boschi, tra voli di pipistrelli e ululati di cani.

Accanto ai prediletti scavi demologici, il Ferraro la­ vora anche per ricostruire i lineamenti della storia se­colare del suo borgo, ed ecco, nel 1873, sulla "Rivi­sta Europea", il saggio Antichi Statuti del Comune di Carpeneto (firmato Napoli, 1872), seguito nell'anno successivo, dall'edizione critica Statuti e ordinazioni del Comune di Carpeneto: 82 pagine in 4° grande per i tipi dell'Issoglio di Mondovì, e ancora, nel 1896, Due documenti aggiunti alla storia diplomatica di Carpeneto d'Acqui (Reggio Emilia, Artigianelli, pp.12).

Sul versante demologico o, come si diceva allora, "demopsicologico", il rapporto col grande Pitrè, dap­prima filiale, poi di salda amicizia , ebbe un'enorme influenza, come stimolo a superare i limiti della "po­ esia popolare" e ad ampliare l'orizzonte della ricer­ca, oltre che sui testi (cantati o narrati), sulle usanze, sulle superstizioni, sulle credenze, sui proverbi, sulla ritualità. Se ne ha un segno palpabile nella collabora­zione, sin dalla sua fondazione, all' “Archivio per lo studio delle tradizioni popolari", diretto da Giusep­pe Pitrè e Salvatore Salomone Marino, in un arco assai lungo, che va dal 1882 al 1904. Su questa importante rivista che, come scrive il Cirese, cronologicamente costituisce in Europa (dopo Mélusine e Folk-lore Re­cord, iniziati nel 1877-79) la terza grande iniziativa nel campo delle riviste demologiche", si verranno via via pubblicando ben 37 contributi (alcuni dei quali in più puntate) del nostro, dai Cinquanta giochi fanciulleschi monferrini alla Botanica popolare, dal­la Nuova raccolta di proverbi o detti popolari monferrini alle Tradizioni demopsicologiche monferrine (laiche e religiose), dalle Spigolature po­polari monferrine alle Benedizioni e maledizioni alle Imprecazioni giuramenti saluti, dal Folklore del­l'agricoltura al Culto degli alberi, dal Carro nelle tradizioni popolari alla Casa nel folklore, dalle Formule dei mendicanti agli "Assempri " in dialetto monferrino al Toccaferro ecc. .

E' principalmente in questi saggi che si trovano mol­teplici riferimenti a Carpeneto, alle sue tradizioni e alle sue usanze popolari. Ma non si deve dimentica­re anche l'interesse linguistico del Ferraro, influen­ zato dalle teorie dell'Ascoli e spinto a ricercare, nel­lo stesso dialetto del suo paese, quelle "medaglie lin­guistiche" in grado di fare luce, come i fossili per i paleontologi, sugli strati più remoti della lingua e in particolare sull'idioma di quei Liguri celti che abita­rono la valle del Po in età preromana. Così nel 1881 esce a Ferrara, grazie ad una sottoscrizione di stu­ diosi (dall'Ascoli al Rajna al D'Ovidio al D'Ancona al Comparetti ecc.), la prima edizione del Glossario monferrino (in sole 66 pagine) che otto anni dopo in edizione accresciuta (130 pagine) viene edito da Loescher di Torino ". Al di là dell'intento dichiarato nella prefazione (richiamare l'attenzione dei filologi "su qualche vocabolo dell'antica lingua degli Stazielli, tribù ligure che abitò il Monferrato prima che Roma conquistasse la Liguria"), le 2367 voci di questo glossario" riescono a darci di per sé un effi­cace ritratto della realtà quotidiana del mondo pae­sano, registrando le parole d'uso comune, le interie­zioni, i modi di dire, i proverbi, i nomi di oggetti, attrezzi, lavori, usanze ecc. Ce ne possiamo fare un'idea concreta se proviamo a ripartire questo corpus linguistico in campi o aree semantiche. Cominciamo dalle voci riferibili ai rap­porti di proprietà e di classe interni alla socie­tà contadina: bus e buè, boaro, contadino che lavora la terra coi buoi; eise in particular da car e boi, es­sere un contadino agiato, possedere terre, perchè è inutile aver carro e buoi senza terre da arare ; famèj e famijh, famiglio, servo; in riferimento a cui si veda anche pagafamijh, vite propagginata che dà il primo anno uva abbondante da pagare i servi, i famigli; giurnaliè, contadino che lavora a giornata; manent, mezzadro, colono che risiede, manet sul fondo, manens colonus del Medio Evo. A Casale si dice masuè, mansuarius, da mansus, fondo, possessione nel M.E., ed in molti paesi monferrini massèe, da massa, significante in antico, predio, casa di campa­gna; pijee ir tere an ca togliere le proprie terre dagli affittaiuoli, per farle coltivare da sè ad opera; sc-ciavandare, contadino obbligato per una somma in denari, od in generi, a fare come uno schiavo, tutti i lavori agricoli che comanda il padrone, senza dividere, come il massè, mezzadro, i frutti. Ben pochi si legano a questi patti, ed il proverbio sc-ciavandare, ciulandàre (sciocco), indica che questo legame è sfuggito dai più; vinulant, vignulant (attendente a vigne, a Molare d'Acqui). Alla voce braje (calzoni, brache) si segnala inoltre l'interessante contrapposizione metaforica tra braje d' bazin, "in gergo i contadini", e braje d' pann, i signori.

Ripartiamo le voci attinenti i lavori agricoli secondo i principali cicli produttivi dell'economia collinare.

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